MORTE / DEFUNTO: vocaboli riverenti. - «La morte non è l’opposto della vita, ma una parte di essa. (H. Murakami). / L’orrore per la morte non nasce dalla fantasia ma dalla natura. (S. Agostino). / Vivi la tua vita, fai il tuo lavoro, poi prendi il cappello. (H. D. Thoreau). / La vita e la morte sono una cosa sola. (K. Gibran). / Le persone che vivono profondamente non hanno paura della morte. (A. Nin). / Non è la durata della vita, ma la profondità della vita. (R. W. Emerson). / La morte è una sfida; ci dice di non perdere tempo. (L. Buscaglia). / La nostra vita conserva tutto il significato che ha avuto: è la stessa di prima, c’è una continuità che non si spezza. (S. Agostino). / Morire è tornare a casa; eppure la gente ha paura di quello che può capitare, e allora non si vuole morire. (Madre Teresa)».
Il sentirsi immedesimati e coinvolti dal succedersi delle RICORRENZE tradizionali certamente fa parte della vita più che normale, specie per i vecchi come me che, nel sentirsi partecipi del vivere ciò che viene tramandato, come in questa giornata la “Commemorazione dei DEFUNTI”, si ha la sensazione non tanto di compiere il proprio dovere, quanto il sentirsi soddisfatti e gratificati nel vivere un’emozione fondamentale dell’esistenza. Io mi sento convinto che anche il portarsi dietro il vocabolo “morte” durante tutta l’esistenza, non sia un sentirsi sotto il peso di una cappa fuligginosa, ma possa far sentire il sostegno di un “alpenstock” (bastone degli alpinisti) che cadenza il proprio passo sia in salita che in discesa. Ho avuto la fortuna di non aver mai avuto il sentore della paura di morire; anzi pensavo di essere destinato ad essere in partenza anche da giovane, ma la “morte” non mi ha mai sfiorato davvero, neppure durante il periodo di guerra e di prigionia in Giappone. Certamente pure la solida formazione giovanile avuta, mi ha sostenuto nel considerare ogni giorno come l’ultimo della vita, per cui ciò che si doveva fare era da completarsi al meglio possibile per non lasciare qualcosa di sospeso alle proprie spalle da dover fare sopperire da parte di chi doveva sobbarcarsi il mio da fare e lasciato colpevolmente incompiuto.
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In queste ore di martedì 2 novembre sto chiedendomi che senso abbia questo mio rimanere sospeso ai pensieri che fanno rivivere e sentire presenti le “persone scomparse” - i cari DEFUNTI -, e che riguardano il tempo che io non ci sarò più. Mi sento sollecitato dal fatto che, nel ricordare specialmente quanti hanno camminato con me alla luce del “tutto finito” di quanto avevano a cuore, mi sollecita a prendere in diversa considerazione anche il mio perdurare nell’essere e nel sentirmi vivo. Lo trovo addirittura interessante e doveroso, ossia il sentirsi vivi ed operativi anche di fronte alla eventualità che l’istante successivo non ci si possa essere più. Una contraddizione di termini? Un gioco di parole? Una illusione? Una elucubrazione di un vecchio barbogio che non ha nient’altro a cui pensare trasformando la paura della “morte” in una ragione di vita? Eppure, ad oltre cent’anni compiuti e con la morte ormai sentita vicinissima, è ancora il pensiero della obbligata dipartita che mi incoraggia a fare quel po’ che mi è dato di fare, ad approfittare del tempo che ancora mi è concesso per lasciare qualcosa di me che potrà far parte di ciò che altrimenti mi verrebbe di lasciare incompiuto.
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La morte come motivo e animazione di vita. Ecco perché l’umanità, sotto molteplici forme, si è sentita anche sempre collegata col mondo dei DEFUNTI, addirittura singolarmente a ciascun DEFUNTO, con tombe e mausolei, catacombe e cimiteri, ceneri nelle urne o sperdute nell’immensità dell’aria o delle acque. Oggi, in varie parti del mondo, si sta vivendo, secondo le tradizioni dei riti cristiani, l’annuale “Commemorazione dei DEFUNTI” come attimo di pausa per dare alla propria esistenza quasi un frustrata di incoraggiamento per far sì che quanto vi è da fare, proprio in vista della morte, venga fatto nel migliore dei modi e secondo quanto imparato proprio da coloro che ricordiamo come punti di riferimento per il proprio modo di impestare le modalità esistenziali. Nelle nostre vallate trentine, degli artisti itineranti, durante il Medioevo, hanno lasciate dipinte sulle pareti delle navate o sulle facciate esterne degli edifici sacri, delle “Danze macabre”, ossia degli affreschi nei quali la “Signora con la falce in mano” sta mietendo personaggi di ogni genere, dai Papi e i Re alla gente comune: il segno della realtà della storia dell’umanità. I visitatori si susseguono da secoli ininterrottamente: tutti ne restano affascinati e colpiti. Certamente ognuna ed ognuno si porteranno dietro con sè, nella propria interiorità, delle intime ed inespresse impressioni razionali ed emotive…
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Nel chiedere cortese comprensione se per caso fossi vagato dove non avrei dovuto, mi permetto una riflessione su me stesso, stesa in dialetto ancora vari decenni fa, molto prima degli attuali cent’anni più che compiuti…
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Endó me spètet?
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L’è tùta la vita che té mé córe dré…
Él sò che té sé dré a spetàrme
ma nó sò quàn’ e nó sò ’n dóe!
Mé spètet entàl lèt
o a cà o a l’ospedàl
o ’nvéze sa ’l stradó’?
Sà na vìa lontà’ da cà’
o sà le scàle dé la cantìna?
Entàl gač o sa ’l prà?
Sa ’l mónt o ’n paés?
Qua’ che sarò mi sól
o ’n mèz a quèi àltri?
Él sò che té mé cérche
e che té mé gaterè;
e mi té sénto, té spèto,
e sèito a ociàrme ’ntórna
perché, per quànt che té cérco,
nó sò mài bó’ dé vedérte
e nó mé acorgerò mài
gnànca dé sentìrte rivàr!
Che stràna che té sè…:
té mé stè arént tùta la vìta
e quàn’ che té té farè ’nànč
nó sarò bó’ dé sentìrte
e amó dé mén dé vedérte!
Té mé torè sù ’n brač
pù legér dé na piùma
e té mé porterè vìa,
sa le vìe dé ’l Cél,
lontà’ da tùč
endó che negùgn
nó mé pól córer dré
ma ’ndó che tùč
én dì o l’àltro
i vegnerà a fàrme compagnìa.
Él sò che té mé cérche;
nó pódo scampàrte
e gnànca scónderme.
Mi… sò chì che té spèto;
nó pódo… far altro…;
ma… sénza piànger
e… sénza pòra!
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Dove mi aspetti? - È tutta la vita che mi rincorri… / Lo so che stai rincorrendomi / ma non so quando / e non so dove! / Mi aspetti nel letto / o in casa o all’ospedale / o, invece, sulla strada? / Su una strada lontano da casa / o sulle scale della cantina? / Nel bosco o sul prato? / In montagna o in paese? / Quando sarò solo / o in mezzo agli altri? / Lo so che mi cerchi / e che mi troverai; / ed io ti sento, ti aspetto, / e continuo a guardarmi attorno / perché, per quanto io ti cerchi, / non riesco mai a vederti / e non mi accorgerò mai / neppure a sentirti arrivare! / Che strana che sei…: / mi stai accanto tutta la vita / e quando ti farai avanti / non sarò capace di sentirti / ed ancor meno di vederti! / Mi prenderai in braccio / più leggero di una piuma / e mi porterai via / per le vie del Cielo, / lontano da tutti / dove nessuno potrà seguirmi, / ma dove tutti, / un giorno o l’altro, / verranno a farmi compagnia. / Lo so che mi cerchi; / non posso sfuggirti / e neppure nascondermi. / Io… sono qui che ti attendo; / non posso… far altro…/ ma… senza piangere / e… senza paura! --- Mario Antolini Musón.